Nelle cittadine della conurbazione casertana, al ridosso dei centri storici, i cosiddetti vicoli, o meglio “venelle”, fino a buona parte degli anni 90′ , erano popolati da gruppi di bambini che scendevano ad una certa ora, per buona parte del pomeriggio, a giocare in gruppo. Ogni “venella” aveva i suoi irriducibili e per i ragazzi era quasi scontato giocare a calcio, tutto sommato bastava dotarsi solo di un pallone (indimenticabile il “Super Santos” o anche il “Super Tele”, quest’ultimo capace di traiettore impossibili). Non importava quanto fossi bravo: le formazioni le decideva chi portava il pallone. I più scarsi o i più piccoli finivano a fare i portieri, con la porta delimitata solitamente da due sassi, mentre l’altezza era stabilita “a fantasia”. Spesso la “venella” veniva condivisa con le “femminucce”, impegnate a giocare a pallavolo o a palla avvelenata, una convivenza tutt’altro che facile, ma forzata e mal digerita da entrambe le parti, èer cui non mancavano i dispettucci reciproci.

Bastava un pallone per rendere un bambino l’essere più felice del mondo. La partitella, insieme agli altri giochi di strada alla venella, diventava una vera “maestra di vita”: si imparava a trovare il proprio ruolo nella società, a gestire i primi contrasti e a capire che non tutti vedevano le cose allo stesso modo (come, ad esempio, la vecchietta che voleva bucare il pallone). A volte si sfidava a calcio il gruppo di ragazzi della stradina a fianco, oppure si andava in trasferta. Nel mio paese, San Prisco, ci si spostava verso una via Gianfrotta, allora tutta campagna, per trovare un terreno adatto alla partita, oppure di fronte ai terreni dell’attuale Parco Smeraldo, direzione via Cavacone.

Una volta, vedere tanti ragazzi popolare una viuzza e correre dietro a un pallone nelle strade era la normalità. Oggi, purtroppo, è diventato una rarità.