Una volta si scrivevano letterine con una cura speciale, piegandole con attenzione e nascondendole sotto il piatto, come piccoli segreti di famiglia. Spesso erano accompagnate da poesie imparate a memoria, ripetute mille volte sottovoce, nella speranza che a quelle parole seguisse anche una piccola mancetta.
A scuola si partiva sempre da una brutta copia: l’insegnante correggeva, indicava, e solo dopo si passava alla versione definitiva, scritta con la calligrafia più ordinata possibile. Le frasi erano semplici, rivolte ai genitori, piene di promesse sincere e buoni propositi, e si chiudevano quasi sempre con poche parole affettuose.
Il giorno di Natale, durante il pranzo, la letterina finiva sotto il piatto del capofamiglia: nonno, papà o la persona più anziana della tavolata.
Al momento giusto lui/lei lo sollevava fingendo sorpresa, e per un attimo tutto si fermava. Leggere quelle righe era un’emozione che scaldava il cuore più di qualunque dono.
Dopo si restava a tavola ancora un po’, poi il pomeriggio scorreva lento tra una tombola e una risata. Nell’aria si diffondeva il profumo delle bucce di mandarino lasciate sulla stufa a legna e sulla “vrasera”, un odore che sapeva di casa, di inverno e di attesa.
Quando arrivava la sera si rimettevano in tavola gli avanzi del pranzo, gli adulti si raccoglievano intorno alle carte e i più piccoli, anche a Natale, restavano a guardare, imparando senza saperlo cosa fosse davvero il calore.