Nel comparto tifatino, ogni 𝑣𝑒𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 di ogni località aveva i suoi irriducibili calciatori, quelli che la rendevano davvero “bella”. Parliamo soprattutto degli anni fino ai primi ’90, quando le scuole calcio non erano ancora così diffuse e c’era ancora la voglia di scendere in strada per giocare a pallone. Non importava quanto fossi bravo, le formazioni le decideva sempre chi portava il pallone. I più piccoli o i meno capaci finivano quasi sempre in porta, delimitata da due sassi o dagli zaini, con un’altezza stabilita “a fantasia”.

Spesso lo spazio della venella era condiviso con le bambine, impegnate a giocare a pallavolo o a palla avvelenata. Questa “divisione” non era mai gradita, né da una parte né dall’altra, e i dispettucci non mancavano.

Eppure bastava un pallone per rendere un bambino l’essere più felice del mondo. La partitella, insieme alla venella, diventava una vera maestra di vita: insegnava ad avere un ruolo nella società, a gestire i primi contrasti e a capire che non tutti la pensavano come te (soprattutto la vecchietta che minacciava di bucare il pallone).

Sono ricordi che appartengono soprattutto a chi ha vissuto un’infanzia all’insegna della compagnia: le generazioni dei boomer e quelle a seguire che hanno condiviso momenti e amicizie in gruppo. Un contesto ormai molto lontano da chi, oggi, anche a causa della mancanza di coetanei e del calo demografico, vive un’infanzia proiettata soprattutto sullo smartphone.

Non c’è polemica in questa riflessione, ma la consapevolezza di una realtà attuale; da una parte lo spopolamento, dall’altra il dominio della tecnologia che si impone su tutto e tutti gli interessi.

Un tempo vedere tanti ragazzi rincorrere un pallone per strada era la normalità. Oggi è diventata una rarità.